mercoledì 6 giugno 2012

NEL NOME DELLA MADRE


Statuetta di pietra nota come Venere di Willendorf  risalente al Neolitico e ritrovata in Austria, rappresenta una dea madre. La sua figura esagerata nelle rotondità, evidenzia la funzione femminile della procreazione.

Perché io sono colei che è prima e ultima
Io sono colei che è venerata e disprezzata,
Io sono colei che è prostituta e santa,

Io sono sposa e vergine,
Io sono madre e figlia,
Io sono le braccia di mia madre,
Io sono sterile, eppure sono numerosi i miei figli,
Io sono donna sposata e nubile,
Io sono Colei che dà alla luce e Colei che non ha mai partorito,
Io sono colei che consola dei dolori del parto.
Io sono sposa e sposo,
E il mio uomo nutrì la mia fertilità,
Io sono Madre di mio padre,
Io sono sorella di mio marito,
Ed egli è il figlio che ho respinto.
Rispettatemi sempre,
Poiché io sono colei che dà Scandalo e colei che Santifica.
Inno a Iside
Rinvenuto a Nag Hammadi, Egitto;
risalente al III-IV secolo a.C..
Agli albori della civiltà umana la prima dea ad essere venerata fu la Grande Madre, la donna procreatrice che donava la vita e consentiva la sopravvivenza del figlio nutrendolo col suo latte. Chi meglio di una donna poteva assurgere a simbolo creativo per eccellenza? La donna, in grado di mettere al mondo nuovi esseri viventi, era considerata portatrice di un potere misterioso: il mistero del concepimento e dell'allattamento spinse gli uomini primitivi a venerare colei che dava la vita partorendo un essere umano e che gli consentiva di continuare a vivere fuori dal suo grembo. Ella rappresentava la Terra che dava frutti, la Luna con le sue fasi, le stagioni, il ciclo della vita e la morte. Rappresentava l'origine e la fecondità: il suo ventre rotondo e capiente simboleggiava la capacità di donare la vita trattenendo dentro di sè il frutto fino alla sua maturazione. Le mammelle gonfie rappresentavano la sopravvivenza: dopo aver donato la vita, la donna garantiva il cibo per sua stessa natura. La donna è depositaria dunque della capacità che ha le caratteristiche del prodigio di “creare” e poi trasformare attraverso il sangue, simbolo di vita e di generazione e poi il latte, simbolo e strumento di nutrimento per la preservazione della “specie”.
 by Kamil Vojnar
Secondo Jung l'archetipo della Grande Madre è «La magica autorità del femminile, la saggezza e l'elevatezza spirituale che trascende i limiti dell'intelletto; ciò che è benevolo, protettivo, tollerante; ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; i luoghi della magica trasformazione, della rinascita; l'istinto o l'impulso soccorrevole; ciò che è segreto, occulto, tenebroso; l'abisso, il mondo dei morti; ciò che divora, seduce, intossica; ciò che genera angoscia, l'ineluttabile». I miti e le pratiche religiose dei popoli primitivi, basavano i loro principi su una corrispondenza simbolica : donna = cerchio = conchiglia = vaso = mondo. Il vaso è infatti ciò che meglio rappresenta la funzione del femminile di contenere e custodire la vita, di proteggere e nutrire, mentre allo stesso tempo “racchiude” al suo interno e cela l’invisibile e il mistero. Quello della Grande Madre è un archetipo che possiede una quantità infinita di aspetti essendo allo stesso tempo Donna, Madre, Amante e Sorella. Con il passare dei secoli, ogni civiltà le attribuì nomi diversi, glorificandola come unica fonte di vita dell’intero Universo. Il Vecchio Testamento ce la presenta nella sua forma originaria, Eva/Serpente,  l’animale che sulla Terra è adagiato e compenetrato in essa.
La Grande Madre, divinità legata al lavoro della terra e alla ciclicità delle stagioni, sarà sostituita nel tempo da figure maschili che rappresentano il successivo mutamento della struttura socio-economica primitiva: dal matriarcato si passa alla società e alla famiglia patriarcale. Sia che si chiamasse Damona per i Galli, Danu per gli Irlandesi, Brigit per i Celti, Hathor per gli Egizi, Inanna presso i Sumeri, Ishtar presso i Babilonesi, Devamatri, principio astratto della creazione primordiale), Prithvi (nel pantheon indiano è la Dea della Terra, della Natura in tutte le sue forme nonché dea dell'abbondanza), Parvati (adorata nella tradizione Hindu come Dea della Fecondità), Rhea/ Cibele, Gea/ Gaia, Demetra-Cerere, Persefone o Core/ Proserpina, Branwen (Dea celtica “dai bianchi seni” che incarna la Madre Universale), Holle (dea germanica), Iside (Dea egizia consorte di Osiride), Maria, (la Madre di Gesù Cristo),  la Grande Madre rappresenta la fertilità poichè dispensa figli ed abbondanza. La donna ne è la rappresentazione umana e, grazie al legame privilegiato che detiene con la dea, da sempre custodisce i segreti della vita, della procreazione e della guarigione. Nel culto cristiano i suoi archetipi sono stati rimodellati sulla figura di una sola entità femminile, la Vergine Maria.
La Grande Madre ha sempre avuto una duplice o triplice rappresentazione: viene infatti identificata sia con la Luna Piena (amica, benedicente e generosa)  con la Luna Nuova (ostile e distruttiva) oppure con la Terra (i regni umani e terreni), e la Morte.
I simboli che si collegano alla Grande Madre sono caratterizzati dall’ambivalenza, da una duplice natura, positiva e negativa, quella di "madre amorosa" e di "madre terribile" principio di trasformazione e distruzione. Nei riti connessi alla Dea, infatti, viene venerata sia come simbolo della Natura positiva (da cui la fertilità, l'abbondanza dei raccolti e in generale la prosperità e il nutrimento) che del volto negativo della Natura (le tempeste, la carestia e in generale la morte, e la distruzione) non a caso molte antiche rappresentazioni della Dea Madre avevano il volto metà bianco e metà nero.
La Terra, con tutta la sua potenza creatrice e allo stesso tempo distruttiva è il femminile, l' origine, il principio da cui discende tutto. La società matriarcale riconosceva alla donna il diritto di congiungersi con gli uomini della sua tribù e di altre famiglie, non esistendo il potere dell' uomo, la matriarca rappresentava il capofamiglia, la prole era il suo frutto e non era necessaria la certezza della paternità. Il potere della donna durò molti secoli finchè, con l’avvento dell’agricoltura e l’abbandono della vita nomade il concetto di Dio iniziò a cambiare. Presso i babilonesi si intaccò il potere della Dea e si adorò il dio Marduk come creatore del mondo. Con l' avvento di Marduk, la donna venne relegata in casa, proprietà del maschio che voleva la certezza che la prole provenisse dal suo seme: comparve Lilith, ancora bellissima, apportatrice di tempeste, tentatrice, lussuriosa ma sterile. Da quel momento in poi la donna è stata spesso demonizzata perché perdesse il potere delle origini. Oggi nel mondo occidentale il potere della donna è cresciuto a dismisura: la legge che consente alla donna di decidere volontariamente l' interruzione della gravidanza è un potere di vita e di morte… niente più editti, niente più roghi.

Gustav Klimt: Le tre età della donna, 1905. Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma.


G. Klimt rappresenta un tema ricorrente nella sua opera: la precarietà della vita e della bellezza. L’opera è un’allegoria del ciclo della vita attraverso i momenti della nascita, della fanciullezza, della maternità, della vecchiaia, della morte.
La figura della giovane donna in contrapposizione all’anziana rappresenta la maternità e appare immersa in un’atmosfera irreale e quasi sacra. L’abbraccio della giovane donna è delicato e avvolgente allo stesso tempo. Un particolare evidente nella donna anziana è invece il grembo deformato e ormai divenuto sterile.

La maternità è un continuum che corrisponde al ciclo della vita: una volta concluso non si esaurisce, ritorna. La donna è certezza del mondo, garante della vita e della continuità della specie.

IO (UNA) MADRE

Ricordo ancora
il torpore del risveglio
il riemergere al reale
con la mente vuota
incapace di pensare
voci confuse da lontano
attraversano il silenzio
di oblìo simile alla morte.

Dalla cortina di assenza
un ricordo inconsistente
diviene paura concreta.
È viva? È sana?
Provo a muovere le membra intorpidite
anestetizzate da staticità imposta
a lungo protratta.

Un dolore tagliente
mi annebbia la vista.
Mi rispondono
che sei viva sei sana
(Avrò parlato dunque?)
sollevata sprofondo
ancora nell’oblìo.

La prima volta che ti ho visto
mi sei apparsa
un angelo di Dio
il miracolo mio
di donna.
Avevi la pelle di luna
le linee di velluto
il mio stesso odore.

Eri il prodotto puro dell’amore.

Ora il miracolo è svegliarti
scoprendo i segni della crescita
gioire e piangere con te
che sei parte di me
(ancora lì dove sei stata concepita)
la mia miglior parte
il futuro roseo
di attese e di speranze.

Ti accompagnerò
finchè sarà concesso
non ripeterò gli errori
di mia madre
ne compirò di nuovi
quelli che solo le madri fanno
per eccessivo amore.                                                        

Deborah Mega 

2 commenti:

  1. I valori della civiltà femminile, coltivati spesso nell’invisibilità, in interstizi o zone franche o non luoghi della società (i conventi, i salotti, la vocazione poetica), oppure contrastati da acute forme di disagio psichico e spirituale (l’isteria), sono stati in gran parte i valori che un’intera cultura patriarcale ha reso funzionali alle proprie lotte di potere e accumuli di denaro sotto il nome di maternità, obbedienza, passività, pietà, misericordia. Valori che hanno sempre visto la donna sul confine tra storico e non storico, tra mente e corpo, pubblico e privato, legati strettamente alla corporeità della donna, alla sua funzione procreativa, alle sue emozioni, alla sua incapacità di prescindere da un intimo sentire in ogni sua forma di attività e di espressione, alla custodia della vita e all’amore per il mondo a cui si sentiva chiamata. Infine venne il momento in cui questi valori venivano dichiarati la struttura portante, non di un ruolo nell’ambito della divisione del lavoro, non della funzione di un sesso rispetto all’altro, non di una missione salvifica o di una candidatura al potere, bensì di una visione del mondo, di un sapere e di un modo di vivere la storia e la condizione umana. Se, nel frastagliato, panorama della riflessione femminista europea e americana, c’è un elemento, diffuso soprattutto nel contesto francese e italiano, di grande rilievo teorico, questo è rappresentato dalla reinterpretazione della nascita da madre e quindi della genealogia femminile. Piuttosto che celebrazione della figura materna o prospettazione di un’etica della cura (elementi, questi, che caratterizzano piuttosto alcune riflessioni nel mondo anglosassone), la nascita da madre appare il fondamento di un ordine simbolico imprescindibile per il radicamento nel mondo (il linguaggio), per l’elemento di novità, di libertà e di imprevisto introdotto da ogni nuovo essere

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  2. Perché chi accetta di dovere il proprio essere al mondo a un evento, la nascita, accetta un debito di gratitudine originario, accetta di misurare il proprio sé e di attestarlo nella sua unicità irripetibile sempre e solo a partire da un incommensurabile, da un altro – dal bisogno di essere visti e ascoltati, di rivolgersi a un altro, di esporsi a lui, di mettersi nelle sue mani e magari essere riconosciuti – per essere.
    Il pensiero della differenza sessuale si fonda al contrario sull’idea di una corporeità vivente e parlante, pensante e agente, unità di corpo e di anima, situata in un mondo storico e spirituale. Dire questo vuol dire che la differenza sessuale non è solo un fatto psico-fisico, bensì attraversa e coinvolge la vocazione spirituale delle donne e degli uomini: la differenza dei corpi è anche differenza spirituale. Questo è uno dei principali profili attraverso i quali la soggettività femminile si rende riconoscibile nel campo della creatività artistica, culturale, filosofica, politica e spirituale in contrasto con l’impersonalità del ‘neutro’, ossia di creazioni che si suppone abbiano autori senza sesso o indifferentemente sessuati o, ancora più esattamente, di sesso maschile talmente enfatizzato da elevarsi a paradigma universale.

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