venerdì 6 luglio 2012
Nuda
NUDA
Lente d’ingrandimento
bisturi e luce accecante
nuda sul tavolo d’acciaio
spogliata su lino bianco
come immacolato tributo
sacrificale omaggio
nel tremendo spettacolo del silenzio
silenzio immobile
vivo di carne estranea e persa
ghiacciate le membra attendo
sento parlare di me da siderali distanze
sono nuda tra la gente
cammino nuda tra la gente
i fogli galleggiano nell’aria
sono pesciolini di carta animata
sono pronta per il veloce striptease di turno
il pubblico mi guarda chiuso nel suo acquario dorato
lancio monetine, perle e fiori di estrema poesia
cadono lenti sui volti assorti , gli occhi seguono pensosi
una nevicata impercettibile
sottilissima coltre di suoni senza rumore
la poesia come l’analisi
lascia soli
Floriana Coppola dalla Silloge SONO NATA DONNA Boophen Led
La poesia come l'analisi lascia soli. Non è una malinconica riflessione ma la constatazione che bisogna fare spazio dentro di sè , accettare il silenzio della ricerca esistenziale che unisce sia la scrittura lirica che l'analisi per poi tornare al mondo...e soprattutto non avere paura di questa solitudine perchè è profondamente rigenerativa e rientra nella capacità che abbiamo di contemplare e di respirare seguendo altri ritmi, altri percorsi interni. Forse è questa sospensione interna che ogni donna ha bisogno di recuperare e difendere. Clarissa Pinkola Estess la chiamava il bisogno e l'urgenza ogni tanto di tornare nella casa dell'anima. Ecco credo che la poesia e l'autoanalisi sono due potenti strumenti per aprire questo luogo di ristoro e di rinascita e se non si riesce a farlo è perchè abbiamo tanti distrattori che ci tengono fuori dalla nostra stanza interiore....cercare poi di entrare nell'onda della comunicazione con gli altri è un secondo passo che vede l'esibizione di sè come successivo momento ma se è vissuto come autocelebrazione e forsennato e ossessivo bisogno di riconoscimento esterno serve solo per rinforzare i confini del nostro io ma non ci aiuta a crescere e a permettere alla parola lirica di evolversi e di fare ponti con le altre sensibilità. Non è facile capire bene il confine tra autocelebrazione onnivora e egoica e invece la possibilità di accettare un bagno di realtà per rendersi conto se la propria cifra stilistica funziona ed è efficace e pronta per essere capace di far circolare valori, percezioni e emozioni che albergano nel cuore di ognuno.....il limen tra masturbazioni consolatrici e scrittura dell'anima forse potrebbe essere verificato da quell'insight che la parola crea in un altro, aprendolo immediatamente ad un'altra percezione di sè, del mondo e degli altri.....su questo si potrebbe aprire veramente una discussione....infinita......
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La “resistenza” della poesia
RispondiEliminaPer un’ipotesi di poesia come lingua carnale del desiderio
Penso che ogni essere umano senta su di sé, oggi più che mai, una minaccia diffusa. Gilles Deleuze direbbe che il “macchinico” coinvolge l’individuo in un dominio che annienta il corpo e la mente, celandolo con la definizione (fuorviante) di globalizzazione che, occorre dirlo, è solo il nome che si dà oggi alla logica del profitto, diffusa su tutto il Pianeta: il neoliberismo. Ormai, questo sistema economico fa passare l’idea che la libertà (di mercato) sia un “valore umano” ed è conseguente il considerare la “lotta di tutti contro tutti” – popoli, culture, lingue e persone – legittima e dovuta alle necessità mondiali in atto, per l’estendersi delle relazioni economiche. E anche l’utile ci viene proposto come “valore umano”, applicabile alla vita intera: affetti e relazioni, educazione e salute, nascita e morte sono ormai pensati quasi esclusivamente con il parametro economico-produttivo dell’utilità, scordando le valenze emotivo-esperienziali e, dunque, profondamente umane che hanno gli eventi del vissuto. Spesso le persone, inoltre, finiscono per credere che “chi non ha successo”, in fondo, è solo perché “non è furbo”; “è un incapace” e, quindi, è un “perdente”, una sorta di incarnazione del disvalore.
Due filosofi-psicoanalisti hanno definito la nostra come «l’epoca delle passioni tristi», rifacendosi a tesi di Spinoza[1], un’epoca di disorientamento: il futuro non è più sentito come «una promessa», come è stato per l’Occidente postilluminista e neopositivista, ma come «una minaccia», viene meno la progettualità e la speranza. Se il sistema non fosse complesso, se non fosse “macchinico”, appunto, se non avesse in sé una vera e propria “capacità seduttiva”, tanto che i desideri di tutti, quasi di tutti, sono agiti dall’esterno, alienati dal soggetto e diretti ….solo verso un unico fine: “consumare le merci” (tra cui i corpi stessi, intesi anch’essi come “merci”); se tutto questo non sapesse insinuarsi sottilmente nell’inconscio, tramite la subcultura dei sistemi mediatici, non sarebbe capace di attecchire dentro ognuno, tanto da venire condiviso, accettato e subìto… senza consapevolezza, senza ribellione dai più. Si tratta di un vero e proprio “potere opacizzante” planetario, che oscura le menti e domina i corpi, celando il dominio in un linguaggio vacuo, pieno di eufemismi, ma anche con l’anonimicità del sistema stesso che è un Leviatano, ma “senza nome e senza volto”, ovvero, domina, ma spesso senza strumenti materiali di coercizione, tortura e abbrutimento.
Si tratta di un vero e proprio “potere opacizzante” planetario, che oscura le menti e domina i corpi, celando il dominio in un linguaggio vacuo, pieno di eufemismi, ma anche con l’anonimicità del sistema stesso che è un Leviatano, ma “senza nome e senza volto”, ovvero, domina, ma spesso senza strumenti materiali di coercizione, tortura e abbrutimento. A volte il sistema planetario mostra il volto: la sua violenza,la sua tenacia di annientamento, eppure i più finiscono per dimenticarsene…troppo facilmente. Se i corpi sono dominati, rattrappiti in gesti vuoti, estraniati dall’Io, è davvero necessario tornare a interrogare il corpo: è necessario vedere e sentire con il corpo. Il che non significa agire o pensare in modo emotivo, irruente e passionale, ma al contrario: cogliere come la nostra esistenza, l’esperienza e, dunque, anche il linguaggio sono radicati nel nostro corpo e come questo sia oggi sempre più aggiogato, privo di parola ed estraneo a noi stessi. Nel suo recente volume di scritti filosofici sul fervore Jean-Luc Nancy nota che è il “ci” (di heidegeriana memoria) che segna e dice la nostra presenza al mondo: è il «ci sono» che apre il soggetto al mondo e il mondo al soggetto. Il pensiero e la lingua non vengono mai dall’astratto e individualistico cogito ergo sum di Cartesio ma, scrive Nancy, dall’esperienza dell’esserci, dal nostro vivere in quanto corpi in un certo luogo, in un certo tempo ed entro certe relazioni con altri e occorre dire, con Nancy; «io ci sono, io ci penso: il pensiero ci si trova, ha lì il suo peso specifico» [2].
RispondiEliminaParafrasando la filosofa spagnola Maria Zambrano[3], possiamo dire che il poeta è colui che vive «un’unione erotica» con il mondo, colui che vive sentendo «nella propria carne l’ustione del mondo» e testimoniando ciò in parole sa dire sia il darsi immediato del reale, sia le “leggi” in esso inscritte: il telos, il “movimento” che agita ogni evento nel continuo darsi di “possibilità”, realizzate o solo in divenire. Nella grande poesia “l’interno” (l’interiorità emotivo-memoriale) dell’Io si collega con “l’esterno” (i dati concreti e tangibili del mondo) e viceversa, tanto che tale polarità esiste ma come tensione reciproca in atto proprio nella lingua poetica che testimonia, dunque, l’intreccio tra Io e mondo, la complessità e stratificazione dell’esperienza stessa. E’ questo “ci” di cui scrive Nancy a cui allude anche Adam Vaccaro con la «teoria della Adiacenza»[4], tesa a cogliere come nella lingua poetica si intreccino le varie “parti” dell’umano, per cui la poesia non può mai essere interpretata solo come lingua dell’Io, ma anche come voce dell’Es e del SuperEgo, il che rimanda a istituti freudiani, ma applicati alla poesia. Solo chi sa avvertire la prossimità si scopre corpo tra corpi: «corpo di corpi», direbbe Giancarlo Majorino, solo così il poeta può trovare parole che eccedono e insieme sintetizzano l’esperienza individuale che proprio perché profondamente, intensamente vissuta e nominata con potenza linguistica diventerà condivisibile con/per altri.
Ogni esperienza si fonda non sul possesso del mondo o dell’altro da sé, ma sull’approssimazione al «mistero del reale», dice Jean-Luc Nancy nel citato volume di saggi: il vero “mistero” cui si dà parola in poesia (o nell’arte) non è mai metafisico ma è «la prossimità» che il soggetto vive con ciò che più gli sfugge: la realtà, l’altro da sé e se stesso. E’ questa la prossimità che l’umano avverte nel momento in cui si apre al mondo tanto che l’esperienza vissuta sia insieme percepire/sentire/pensare, cogliendo in ciò la propria stessa esistenza come «differenza»: solo vivendo questa prossimità con consapevolezza “carnale”, potrei dire, il poeta coglie il “mistero” del reale e lo «traduce in figure», direbbe la Campo, ovvero, trova le parole necessarie per dargli forma. Percezione, visione, intuizione, pensiero ed emozione assumono nella lingua poetica una struttura precisa attraverso ritmi, suono e senso così che la parola ordini il reale e, dunque, la scelta “formale” di un testo o di un libro è fondamentale (non un sovrappiù) e consiste nel saper stare in bilico tra “vertigine” e “misura”, direbbe Marco Ercolani[5] e dico anch’io. In poesia, infatti, il senso si realizza dando voce anche ai lati oscuri, segreti, impensati della vita stessa, il che si attua dando forma alle inattuali e perturbanti modalità espressive della lingua stessa, dando “peso”, “colore” e “intensità”alle parole, dando ritmo al testo. Solo così si “spinge” la lingua a mostrare la sua forza nominante che, dando nome, dà senso all’esperienza. Per questo non si può e, a mio avviso, non si deve, dire con parole di “quasi prosa” l’esperienza come accade in molta poesia contemporanea, né lo si può fare con l’autocompiacimento narcisista in versi “di quasi diario”. La poesia che occorre scrivere in questi anni non può neppure annidarsi in una dimensione onirica dell’Io, né limitarsi a sperimentazioni verbali, tanto meno può farsi “mimetica” del reale, come è stato nel realismo classico dell’Ottocento o nel Neorealismo degli Anni Cinquanta.
RispondiEliminaCerco nei libri che leggo una poesia che stia sul confine, la cui lingua sia cortocircuito tra le molte dimensioni esperienziali: realismo intensivo[6], definisco questa poesia che sa dire l’intreccio, il legame tra visibile e invisibile, per cui pur traendo forza dal reale, non ne è imprigionata e, pur attingendo all’interiorità immaginativa, emotiva, memoriale del singolo, non è intimista o narcisista. Roberto Mussapi ha definito «caravaggesca» quella poesia che sa essere «visiva e insieme visionaria»[7]: poesia che sa dire la concretezza del mondo e la dimensione invisibile che lo attraversa, come i quadri del grande Caravaggio. In questo senso questa è una definizione calzante a ciò che intendo dire anch’io. Marina Cvetaeva nel saggio Il poeta e il tempo[8] annotava: «ciò che per l’uomo comune è spirito, per il poeta è quasi carne», in quanto è sul confine, nel punto di contatto/scontro tra Io e mondo, che nasce la lingua della poesia che imprigiona così in sé l’ambivalenza della vita stessa. E’ nel “chiasmo”, direbbe Merleau-Ponty[9], che si crea, si modifica e si significa l’esperienza di ognuno di noi ed è lì che nasce la grande parola che, se è tale, sa creare un “ponte” tra il singolo e gli umani, tra il presente e la memoria, tra ciò che è vita dell’individuo e una dimensione ancestrale dell’esistenza. Solo così la poesia può diventare forza ordinatrice che, nominandolo, dà ordine al reale e in essa trovano senso sia l’esperienza soggettiva, sia quella universalmente umana. Se la poesia è tale non si rivolge più solo a una cerchia ristretta di “addetti ai lavori”, ma parla a tutti e per tutti, poiché dice ciò che ognuno sente necessario. Il problema spesso posto oggi della “mancanza di pubblico per la poesia” è, dunque, un falso problema: non si tratta di “avere masse” che ascoltano o partecipano, ma occorre avere da dire qualcosa che parli ai pochi che sanno ascoltare.
RispondiEliminaOccorre avere parole acuminate: dense eppure scabre, precise eppure in movimento; parole come gesti, che siano frutto di un’esperienza e di un pensiero intensi, azzardati e rischiosi, il che richiama ciò che T.S.Eliot[10] aveva scritto moltissimi anni fa: occorre avere in poesia «un pensiero sensuoso». Idee, emozioni e immagini nascono dall’esperienza sensibile del nostro vivere al mondo e nel mondo, diceva anche il poeta e drammaturgo inglese, e per questo la poesia necessita di “correlativi oggettivi” delle emozioni e dei pensieri, tanto da essere una conoscenza carnale e insieme spirituale del mondo e di noi stessi. Solo così le parole saranno «nette come il diamante»[11], con un ritmo, un tono, una forma in cui si dica e si sveli l’esserci al mondo, la complessità dell’esperienza umana individuale e, insieme, il “battito” del tempo, il “respiro”di un’epoca
Scusatemi,amiche autrici. Il commento è un po' trppo lungo. Quello che aveva detto Floriana può aprire meglio il dibattito sull'essere poeti e sul poiein.
RispondiEliminaIl mio commento fa parte di lungo articolo, che forse avrei dovuto pubblicare a parte. Ma può darsi vi serva...per discuterne.
Un'aggiunta piccolina. Oggi si parla molto di poesia performativa,che secondo me, non ha a che fare con il peculiare 'poetico', ma col teatro e il corpo. Nella poesia, a mio avviso, tutto è contenuto, tutte le varie forme d'arte e la filosofia stessa sono contenute nella parola e nel silenzio che segue la parola.
RispondiEliminaMa si può discuterne,no?