giovedì 11 ottobre 2012

Analisi e commento di Vico ultimo alla sorgente di Floriana Coppola

Non aveva ancora deciso cosa fare con Antonio, del suo inferno con lui. Era troppo presto per pensare. Aveva la bocca impastata, un senso di amaro in gola e pochi pensieri sfilacciati, chiusi in una torbida nebbia. Poteva finire solo così, lo sapeva, l’aveva sempre saputo. Si riaddormentò quasi subito sotto l’effetto dei farmaci, e sognò il suo corpo ferito, le braccia rivolte in alto per ripararsi dal coltello e dalle botte feroci che si abbattevano sui fianchi, sulla schiena, sulle gambe. Era vestita da guerriera, come nei film in bianco e nero che aveva guardato da bambina in televisione. La pelle della tunica sfiorava le sue cosce e i calzari la tenevano ben salda sul terriccio del campo assolato. Combatteva a braccia nude. A causa del sole che l’abbagliava, non riusciva a mettere a fuoco il nemico. Era uno solo? Oppure erano in tre ad alternarsi nella lotta? Era esausta ma non doveva fermarsi, altrimenti sarebbe morta sotto i colpi tremendi. Scuoteva la spada nell’aria e con l’altra mano teneva stretto lo scudo. Sentiva il sudore freddo della paura ghiacciarle la schiena. Non doveva fermarsi. Si agitava più che poteva, trattenendo il respiro, ingoiando la polvere.
Aprì di nuovo gli occhi. Aveva sete e le labbra erano screpolate. Chiese un bicchiere d’acqua ma l’infermiera le spiegò che era ancora presto per bere e che avrebbe potuto solo inumidirle le labbra con una garza. Anna acconsentì e, dopo il sollievo che quel gesto caritatevole le procurò, riprese a dormire. Fluttuò in un nuovo sogno. Era bambina, piangeva silenziosa mentre un giudice grosso come una montagna leggeva la sua condanna. A ogni parola Anna avvertiva una nuova ferita sul suo corpo già straziato. Tremava. Fuori del tribunale, Antonio la stava aspettando furente. Aveva le mani in tasca e l’aria di chi non avrebbe lasciato ad altri il suo territorio. Anche nel sogno Anna sentiva la forza di quell’amore rapace. Lei era l’insetto paralizzato nella sua ragnatela vischiosa.
Tutto si è preso di me“.
Ecco, nella prosa compatta e nello stile dalle lievi sinestesie, Anna si sente come un insetto paralizzato nella sua ragnatela vischiosa. Immagine quanto mai precisa e pregnante, che fa avvertire sulla pelle la condizione di Anna prima della folle corsa tra vicoli tortuosi dei suoi pensieri e delle sue ansie, dei desideri e delle tensioni. Corre senza tregua e se cade si rialza, per ripartire di nuovo. Anna non si ferma, e questa è la sua storia. È la storia di una donna e di tante altre vittime come lei, in casa e non solo. Una corsa eterna, sullo sfondo di una Napoli cruda, difficile, sprezzante. Finché nel dolore si aprono spiragli di speranza, illuminati dalla volontà di vivere, dal sostegno di poche amicizie e dalla forza trainante dell’amore per i propri figli. L’amore per il marito è finito, si è trasformato in terrore, mentre prima di sposarsi sembrava il centro della vita di Anna, con mille promesse di gioia e di anni felici insieme.
Ma il decadere negli inferi di questa storia sentimentale offre uno spunto di riflessione sulla reciprocità della relazione, sulla consapevolezza del legame con l’altro e con il divino: la malattia, la morte e la separazione non sono perdita assoluta di sé e della propria storia, se la sofferenza è condivisa con il gruppo d’appartenenza.
Lento e inesorabile si sviluppa l’intreccio che diventa drammatico nella seconda parte del romanzo. Nelle ultime pagine più che la conclusione della storia si avverte una spiritualità diffusa e vigile che rimanda ad ulteriori significati, ad ulteriori sentieri.
Uno stile denso ed essenziale dai forti toni lirici accompagna la narrazione, da cui emerge la profonda esperienza dell’autrice, insegnante, specializzata in analisi transazionale, che da tempo opera nel campo della prevenzione del disagio infantile e giovanile. 

Nessun commento:

Posta un commento