giovedì 11 ottobre 2012

Analisi dell'IGUANA di Anna Maria Ortese.


SILVANA CIRILLO
Depistages e sdoppiamenti nell’Iguana
di Anna Maria Ortese
Quando la pace e il diritto non saranno solo per una parte dei viventi, e
non vorranno dire solo la felicità e il diritto di una parte e il consumo spietato di tutto il resto, solo allora, quando cioè anche la pace del fiume e dell’uccello sarà possibile, saranno possibili, facili come un sorriso, anche la
pace e la vera sicurezza dell’uomo.
(Anna Maria Ortese, Corpo Celeste)
Se è vero che il finale “aperto” si può ritenere il più rappresentativo della
modernità narrativa novecentesca – e noi siamo d’accordo nel ritenerlo – quello
dell’Iguana di Anna Maria Ortese va senz’altro collocato ai vertici di detta
modernità.
Pubblicato a puntate sul «Mondo» di Mario Pannunzio, uscito una prima volta
in volume nel ’64 e pressoché ignorato da critica e pubblico, ripubblicato poi
negli anni ottanta, quando il gusto si era ormai esercitato ad accettare macchine
narrative complesse e imprevedibili (le neoavanguardie non erano passate invano), finalmente il romanzo trovò un humus adatto a recepirne il carattere straniante e la struttura essenzialmente antitradizionale che, già favoriti dal genere fantastico-visionario prescelto, si caricavano di un’ulteriore ambiguità grazie alla molteplicità frammentaria, vicina alla postmodernità dell’ultimo Calvino, in cui l’autrice sparpagliava il racconto.
Proprio Calvino, ricordiamolo, sognava un “libro di soli incipit”:
un’opera concepita fuori dal self che ci permettesse di uscire dalla prospettiva limitata
d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che
non ha parola, l’uccello che si riposa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica
1
.
163
1
I. CALVINO, Lezioni americane, Milano, Garzanti, 1988, p. 120.La Ortese, invece, per far parlare l’uccello, l’albero, la pietra, le iguane ha
costruito un libro con più finali e senza una conclusione, ha frantumato il self in
una serie di figure plurisdoppiate e ha annebbiato le cause in tante possibili concause.
Ci accorgiamo così, a fine lettura, quando dovremmo cioè parlare proprio
del finale, di doverci chiedere: ma quale finale?
E sì, perché potremmo prendere in considerazione l’epilogo, il classico congedo dal lettore di poche righe, che chiude materialmente il romanzo, ma questo
è inserito in un intero capitolo conclusivo costruito a cipolla, a sua volta misto
di racconto, lettere, versi, metaracconto, ove, a fianco della voce narrante, altri
testimoni sono convocati a dare una lettura apparentemente chiarificatrice degli
eventi narrati. In realtà, come vedremo meglio più avanti, i vari punti di vista si
elidono l’uno con l’altro, ricalcando il procedimento di tutto il libro, in modo
che ancora una volta a restare in piedi sono soltanto le domande. Come se non
bastasse, con grande sapienza letteraria la Ortese ha costruito anche la fatidica
scena della morte del protagonista, ovvero la scena finale per antonomasia,
quella in cui sembra passare davanti agli occhi tutta la vita in un attimo, ma l’ha
collocata nel capitolo precedente e l’ha articolata in una tale complessità di
situazioni e di allusioni, da farla suonare più come sogno o allucinazione che
non come passaggio finale reale.
Giorgio Manganelli fu uno dei pochi intellettuali, che, recensendo il romanzo («Il Messaggero» 6, 7, 1986), espresse il suo ammirato spaesamento di fronte
alla complessità irriducibile del libro, così “anomalo da non somigliare a niente”, e al suo sottrarsi a qualunque semplificazione di genere; i più, invece, intrapresero letture più facili, come si trattasse di un normale libro di avventure.
D’altro canto cosa ci si poteva aspettare da una scrittrice che annovera fra le
definizioni più appropriate, quelle di “sognatrice di fiammella”, sognatrice di
candela “e “zingara assorta in un sogno”? E che seriamente ritiene equivalenti
sogno e realtà?
Il sogno può essere profezia, desiderio, ritorno del rimosso – lo sappiamo
bene – ma anche “rêverie”, quella speciale forma di sognare ad occhi aperti in
cui ricordo, visione, nostalgia, desiderio interagiscono, rendendo assai ardua
attraverso la stratificazione di percezioni e suggestioni creatasi, una distinzione
dei confini tra realtà vissuta e realtà soltanto immaginata
2
. E se la scrittrice esordiente fu incerta tra genere realistico (ne Il mare non bagna Napoli) e genere
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Silvana Cirillo
2
«I nostri grandi ricordi si collocano nello zodiaco della memoria, di una memoria
cosmica che non ha bisogno delle precisazioni della memoria sociale per essere psicologicamente fedele». «La rêverie che lo scrittore conduce nella vita attuale ha tutte le oscillazioni
delle rêveries infantili tra il reale e l’irreale, tra la vita reale e la vita immaginaria». G.
BACHELARD, La poetica della rêverie, Bari, Dedalo, 1987, p. 128, p. 134.fantastico (in Angelici dolori), quella matura opterà decisamente per un genere
più libero, in cui sarà facile dare corpo ai suoi sogni come alle sue ossessioni e
in cui trovare ampio sfogo al bisogno di espressività («…solo le espressività mi
calmavano. Dicendo la pena, la pena se ne andava e una veloce libertà mi sollevava») e linguaggi tali che la aiutassero a venire fuori e a comunicare. La comunicazione sotto il profilo socio-relazionale per la Ortese non è mai stata facile:
spirito ramingo e inquieto, “nomadico”, come la definì Vittorini, che, assieme a
Massimo Bontempelli fu il suo maggiore estimatore, non trovava radici in nessun luogo (cambiò 36 case e visse in 15 luoghi diversi), né riusciva a rispecchiarsi e, quindi, a colloquiare con una società verso cui si sentiva sempre più
insofferente, che le appariva arida, individualista, egoista, dedita solo alla “contabilità”, come dirà nell’Iguana, dimentica delle potenzialità della fantasia, ma
anche incapace di usare ragionevolmente la ragione. Una società offensiva nei
confronti della natura, di cui viola continuamente regole e codici e ottusamente
sorda al richiamo dei suoi profondi misteri. Con gli anni questa insofferenza si
radicalizzerà e insieme ossessiva diverrà la ricerca di una “casa/cuccia” in cui
rifugiarsi: casa che, se all’inizio sembrava solo un problema economico, assunse poi una valenza psicologica di disagio e di sofferenza: più che una casa quella che cercava la Ortese era un’isola, un luogo separato e conchiuso, intatto e
vergine dove ritrovare uno stato di grazia regressivo. Isola, mare, acqua, viaggio
– come sappiamo – sono tutti elementi che si prestano a una forte simbolizzazione in chiave psicanalitica (il richiamo all’inconscio e alla madre, il ritorno
regressivo e “claustrale” all’infanzia, vero e proprio complesso, sono solo i più
facili), oltre al fatto che sono i più ricorrenti nell’iconografia immaginifica legata al romanzo d’avventura e fantastico come insegnano Deföe, Conrad, Melville, Stevenson.
Su isole e in case isolate erano ambientati molti dei racconti surreali di
Angelici dolori che anticipano diverse situazioni dell’Iguana; ancora su un’isola
sperduta si svolge il romanzo di cui ci occupiamo: un’isola pressoché sconosciuta, non segnata sulle comuni carte nautiche – collocabile, perciò, ovunque –
su cui sbarcherà uno strambo architetto lombardo, certo Daddo dei duchi
Estremadura-Aleardi, conte di Milano, partito dalla sua città snob e superindaffarata per cercare luoghi sperduti e selvaggi su cui speculare costruendo case di
vacanze; in effetti Daddo è accompagnato anche dalla segreta speranza di trovare qualche manoscritto o testimonianza di storie esotiche e magari piccanti da
riportare in patria a risollevare le sorti della stanca editoria locale, ormai senza
più idee brillanti. Inizia così a fantasticare del ritrovamento di un manoscritto,
che racconti le vicende dell’isola e dei suoi abitanti e di cui magari diventare lui
stesso protagonista. E intanto lo attende una serie di incontri, di coincidenze e
peripezie che gli faranno dimenticare il mondo grigio e frenetico della sua città
e delle sue stesse origini, proiettandolo in una quarta dimensione sganciata da
qualsiasi logica di spazio e di tempo correnti.
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Depistages e sdoppiamenti nell’Iguana di Anna Maria OrteseLa trama del romanzo è piuttosto complessa: ci proviamo a riassumerla per
dare più punti di orientamento al lettore, che non lo abbia letto. Fermo restando,
comunque, che nell’approccio a un genere siffatto la stessa sintesi finisce per
essere anch’essa già una lettura. Dunque, secondo quanto racconta la voce narrante assai addentro alla vicenda, Ludovico Aleardo di Grees dei duchi di
Estremadura (già il nome prescelto sottintende un chiaro tono ironico), parte
dall’Italia (a Milano è ambientato il capitolo di apertura) alla volta dei lidi spagnoli, si ferma a Siviglia il tempo sufficiente per far incastonare uno smeraldo
della madre da un gioielliere di sua fiducia, giunge sull’isola detta terra del diavolo, Ocaña. Qui incontra Ilario Guzman Segovia, essere senza età, giovane e
vecchio a seconda delle circostanze, scrittore in erba dai modi e dal passato
enigmatici, vestito di abiti un tempo eleganti, ora consunti e sbiaditi, che gli
offrirà un poema manoscritto e lo accompagnerà come presenza-ombra per tutta
la storia. Nella sua casa fatiscente, Daddo conoscerà i suoi fratelli e l’iguana,
strana figura tra animale e donna, tra orripilante e fascinoso, anch’essa senza
un’età definibile, che gioca tutte le notti a campana in mezzo alle galline, che
piange e ride come un fanciullo e che lo farà innamorare perdutamente. Attratto
da questa presenza misteriosa e fascinante, che ha in sé anche un che di familiare e, perciò, di maggiormente “perturbante”, la segue, la spia e vede che gli altri
la trattano con distacco e fastidio e scopre che proprio Ilario, che chissà quanto
tempo prima l’aveva lusingata come una vera donna (lei lo chiamava babbo, ma
l’atteggiamento era da amante), ora l’aveva relegata nello scantinato (luogo
simbolico per antonomasia, luogo nascosto e profondo dove vanno a nascondersi tutte le rimozioni!) e nel ruolo subalterno di servetta, per sposare una nobildonna americana facoltosa e salvare il patrimonio familiare ormai ridotto al
lastrico. Una notte (quante notti il conte trascorrerà nell’isola non è dato sapere:
potrebbe essere anche solo quella che stiamo per illustrare) Daddo, turbato da
tante domande esce in terrazzo e vede Ilario, splendente, sereno, vestito a festa,
una festa d’altri tempi, guardarsi in uno specchio, che inspiegabilmente ne
riflette l’immagine anche sul retro, come se fosse Daddo a specchiarsi e non il
marchese. Ilario e i fratelli si avviano verso il mare; poco dopo Daddo li segue
incuriosito e scorge un corteo di gente appena sbarcata da una nave, avviarsi
lungo la spiaggia. Aleardo se ne torna veloce a casa e, cosa strana a spiegarsi,
trova che il gruppetto di donne e uomini aveva già raggiunto l’abitazione e stava
riunito nello scantinato ad assistere alla cerimonia di benedizione della stessa
fatta da un prete, certo don Fidenzio, per allontanare il male che vi si era insediato. Daddo riconosce in Fidenzio un assistito dalla famiglia di sua madre;
combinazione il chierico era anche amico della madre di Ilario, che morendo
glielo aveva raccomandato: si trovava sull’isola in quelle circostanze per favorire il matrimonio con la rampolla della famiglia americana Hopins, ma dentro di
sé nutriva la segreta speranza che l’isola rimanesse a lui, per farne un centro
internazionale di incontri e di meditazione.
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Silvana CirilloL’iguanuccia, un tempo Estrellita, ovvero “piccola stella” (la natura, tutta,
dice l’Ortese, è un corpo celeste) ora è vista dalla gente come il demonio tentatore in persona, il male, la passione!.
Ilario, sembra di capire, ha rinunciato alla parte spontanea, bella, desiderante, originaria, vitale di sé e della vita. Alla fanciullezza come spontaneità di
sguardo, quella che sta tanto a cuore al conte lombardo: e così, da giovane,
bello, elegante come un cavaliere d’altri tempi, diventa vecchio, secco e rugoso.
La iguanuccia disperatamente rispecchiatasi in un pezzetto di specchio ove la
sua diversità appare inequivocabile, abbandonata e minacciata di essere portata
altrove, pare che tenti il suicidio gettandosi nel pozzo della casa Guzman;
Daddo, delirante, è in fin di vita: pare sia caduto nel pozzo, non si capisce se per
tentato suicidio o per salvare la servetta (e quindi la sua e la propria anima), o
per malessere o per altro. La voce narrante non aiuta il suo Lettore, cui passa
insinuazioni, voci, esclamazioni plurifocali e confuse: fatto sta che attorno a
questo evento si istruisce un processo vero e proprio in cui Daddo, sempre più
delirante, crede di vedere tutto chiaro e soffre del suo passato cieco e ingeneroso, troppo sottomesso al principio di realtà (proprio come accade ora ad Ilario, il
quale al conte appare addirittura nelle vesti del persecutore di popoli Mendez);
per l’opinione comune, invece, che lo mette sotto processo, non sarebbe stato a
sufficienza con i piedi per terra, avrebbe dato troppo ascolto ai suoi sogni. È
evidente che i vari Daddo \ Ilario \ Mendez si presentano come tante facce di un
medesimo reale, visto da diversi punti di vista.
Certo è che – come si è capito – tutte le circostanze in cui avviene lo sbarco
nell’isola alludono fortemente ad un cambiamento di status, o perlomeno al passaggio in uno spazio magico e pittorico, quale quello della rêverie, idealmente
contrapposto a quello incolore della realtà cittadina, che tornerà solo alla fine
del romanzo. La lingua che Daddo parla sembra sconosciuta, l’isola pare impercettibilmente muoversi, la nave Luisa da cui Daddo è sbarcato scompare dalla
vista, la casa che lo ospiterà sembra solo«un’indicazione di casa», le figure sulla
spiaggia sembrano «chissà perché, gente impietrita», la luce è ancora quella
antica delle candele, gli abiti dei locali, dignitosi ma sdruciti, come di chi«ha
vissuto un infinito tempo», i giornali che trova sono vecchi e polverosi e senza
data, i tempi, poi, sono quelli sovrapposti e ubiqui tipici dei sogni, ove le allusioni al sonno, al sogno, al mistero, agli attimi come anni e ai secoli come attimi
non si contano.Tutto farebbe pensare al sogno – non importa se ad occhi aperti o
no – in cui la mente, dotata di ubiquità, spazia non costretta da freni inibitori o
riduzioni censorie. Daddo per un lasso di tempo indefinito, infatti, sarà sprofondato (una delle parole-chiave ricorrenti nel romanzo è proprio  pozzo) nella
dimensione astratta dei possibili, a tu per tu con le proprie rimozioni, le proprie
paure, i propri sensi di colpa, i desideri. L’isola – viene da chiedersi allora per
tutto il corso della lettura – è forse la psiche? Il viaggio è forse una mitica discesa agli inferi e nelle viscere del proprio essere?
167
Depistages e sdoppiamenti nell’Iguana di Anna Maria OrteseDaddo, che vede nell’animale che è l’iguana, la donna, ovvero l’umanità e
nella donna una serva-schiava e nella serva concentra tutta la soggezione delle
creature sottomesse e dei popoli sottomessi e nell’animale-donna tutta la schiavitù del diverso; Daddo, che vive di sdoppiamenti e proiezioni, che guarda la
realtà dal disotto, direbbe Savinio, falsandone le prospettive comuni e scompigliando le aspettative del lettore
3
; Daddo è forse sbarcato direttamente tra le
quinte di uno spettacolare sogno, di un onirico teatro di travestimenti? Sopra
una grande scena dalle tinte cupe di un luttuoso barocco, che celebrano la sacra
rappresentazione del vuoto («Nulla è vero, tutto passa, tutto cade, tutto muta»
dirà la Ortese in un’intervista a Dario Bellezza)
4
e dalle tinte sgargianti e cangianti, che danno corpo alla farsa imbastita per dileggiare un altro tipo di vuoto
(«..questo gran giocare e inchinarsi delle società moderne intorno a uomini da
nulla, opere da nulla, cose da nulla…questa cosa tiene desti: come un incanto,
un prodigio», ibidem). Farsa è lo sbarco delle ricche americane “colonizzatrici”,
accompagnate da un prete traffichino, interessato più ai beni temporali che alla
salute delle anime
5
.
Daddo e quanti la pensano come lui, nell’isola e altrove sono visti come
pazzi, malati o come fanciulli sviati: e chi non sa oggi che linguaggio infantile,
linguaggio psicotico, linguaggio onirico nel gran pozzo dell’inconscio hanno
radici comuni e da esse attingono liberamente immagini e visioni? Non a tutti è
dato di essere poeti – osservava la scrittrice – e di leggere «nel respiro, nel
sogno, nella visione di patrie perdute» ove «il sogno non è una divagazione
della mente – ribadiva – bensì una porta per collegare l’uomo con le matrici
della vita a cui vorremmo sempre tornare»
6
. Matrici individuali, ma soprattutto
matrici lontane, archetipiche.
Permane nell’anima umana un nucleo infantile, una infanzia immobile, ma viva, fuori
dalla storia, nascosta agli altri, travestita da storia raccontata e reale solo nell’esistenza poetica. La cosmicità dell’infanzia rimane in noi. La rêverie infantile, il fantasticare solitario del
bambino conosce esistenze senza limiti. (G. Bachelard)
7
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Silvana Cirillo
3
«Ci vorrebbero le confessioni di un qualche pazzo – magari innamorato di una iguana –
rispose il Daddo scherzosamente, e come gli fosse venuto in mente non si sa.Ma subito tacque, pentito di quel suo prendersi gioco della malattia e della animalità». A.M. ORTESE,
L’Iguana, Milano, Adelphi, 1986, p. 17.
4
ID., Intervista a Dario Bellezza, in appendice a L’Iguana, cit., p. 190.
5
«In confidenza le dirò quanto ho saputo: don Fidenzio vorrebbe lui acquistare l’isola,
per farne un centro di meditazione e, diciamolo, di comodità. Ma a miss Hopins l’isola piace
moltissimo, e così l’unico mezzo era premere sulle superstizioni della suocera». Ivi, p. 139.
6
ID., In sogno e in veglia, Milano, Adelphi, 1987, p. 115. Cfr. G. BACHELARD, La Poetica
della rêverie, cit., p. 109: «… Nelle sue solitudini, quando è padrone delle sue rêveries, il
bambino conosce la felicità di sognare ciò che sarà in seguito, la felicità dei poeti».
7
G. BACHELARD, op. cit., p. 110 e sgg.Dunque tutto appare possibile nell’Iguana e niente è certo: la voce narrante
preposta a guidare il lettore nel labirinto del racconto sparge le pagine di indizi e
allusioni e, insieme, le condisce di perplessità e interrogativi (mi pare, forse,
parve, ebbe l’impressione, chissà perché, credette…), cosicché l’enigma resta
tale fino alla ultima riga, fino all’epilogo:
E con ciò lettore cortese ci congediamo… da Ocaña e dalla sua umile umanità. E se dal
mare che si è chiuso così facilmente su questi mali e questi sorrisi, e sulla figura di un cupo
gentiluomo, se del tempo che passa senza sosta, a Milano come nelle isole, tutto trascinando,
diretto alla eternità, ti sorprenderai, ricorda, per favore, le pressanti domande di Unamuno,
così alle tue simili, e vedrai che almeno tale sorpresa rimane uguale.
L’enigma non si può sciogliere, perché enigmatico è il senso dell’universo
8
,
il tempo che lo regola e che ne costituisce l’intima insolubile tragedia, e il fine
che lo muove; enigma sono vita e morte per chi, come la Ortese, non gode della
speranza della fede; enigma è, infine, la conclusione naturale del genere fantastico puro. Ma una chiave in più di lettura per arrivare alla poetica e alla filosofia sottese al romanzo ci viene data ed è: Miguel de Unamuno. Il quale, proprio
a proposito del finale del romanzo così si esprimeva: «Il finito, il perfetto è la
morte, e la vita non può morire. Il lettore alla ricerca di romanzi finiti non merita di essere il mio lettore; è già finito prima di avermi letto»
9
e proprio nel
tempo che tutto trascina senza un senso apparente, leggeva la vera ragione del
«sentimento tragico della vita»
10
.
Ancora Manganelli scriveva che leggendo l’Iguana gli pareva di leggere
altri cento romanzi moderni e contemporanei: la stessa Ortese in più occasioni
ha fatto riferimento ai Borges, Conrad, Poe, Dickens … da lei amati e poeticamene condivisi. Ma del filosofo-scrittore basco mai una parola, anche se proprio
l’isola, Ocaña, la troviamo citata nel suo Commento alla vita di don Chisciotte
come luogo di sepoltura del padre del poeta spagnolo Jorge Manrique, di cui
cita alcuni versi
11
. Ora Unamuno è chiamato addirittura a chiudere il libro: ma è
chiamato proprio in forza delle domande che lui ha lasciato aperte, che non di
risposte che non ha mai dato.
È facile capire che, come accade quasi sempre per le opere della Ortese, la
narrazione si tinge presto di una forte vena saggistico-antropologica, questa
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Depistages e sdoppiamenti nell’Iguana di Anna Maria Ortese
8
«L’universo… un luogo estraneo totalmente alla ragione, dove la ragione non ha senso,
un luogo nemico, profondo, senza luce, senza indicazioni, senza direzioni, senza nomi».
A.M. ORTESE, Intervista cit., p. 192.
9
M. DE UNAMUNO, Come si fa un romanzo, a c. di G. Mazzocchi, Pavia, Como, Ibis,
1994, p. 110.
10
ID., Del sentimento tragico della vita, negli uomini e nei popoli, Milano, SE, 1989.
11
ID., Commento alla vita di Don Chisciotte, Milano, Dall’Oglio, 1964, p. 250.volta alleggerita, però, da una nuova vena ironica. E non possiamo far a meno
di pensare all’opera del filosofo basco, anch’essa misto programmatico di autobiografia, di riflessioni filosofico-esistenziali, politiche e di racconto, proposti,
come fa nell’Iguana la nostra autrice, ad un ipotetico lettore chiamato continuamente in causa: un lettore colto e profondo in tutti e due i casi, se da una
lato è in grado di orientarsi tra le mille citazioni che Unamuno gli propone e
dall’altro – per quanto riguarda il nostro romanzo – è in grado di risalire alle
domande e ai rovelli del filosofo spagnolo, cui la scrittrice nell’epilogo allude.
Né si possono ignorare gli infiniti punti di contatto tra la poetica espressa nel
Commento  e, ancor più, nel  Sentimento tragico della vita, e quella di una
Ortese sempre all’ossessiva ricerca di una solidarietà cosmica, che dia un senso
al tutto e un’illusione di eternità, e di una coscienza universale che sostituisca
un Dio inaffermabile. «Personifichiamo il tutto per salvarci dal nulla» esclama
Unamuno, che al buonsenso degli ipocriti e farisei, preferisce “la follia della
croce”, la follia del Don Chisciotte: «È forse follia, e follia grande voler penetrare nel mistero dell’oltretomba; follia voler porre le nostre imaginazioni, gravide di intime contraddizioni, al di sopra di ciò che una sana ragione ci
detta»
12
. È inevitabile fare riferimento alla “santa follia del giovane Daddo” o
richiamare quella che serpeggia in tutto il penultimo romanzo della scrittrice, Il
cardillo addolorato.
L’Iguana è certamente testimone di un momento di grande maturità e raffinatezza stilistica della Ortese, scrittrice da sempre polemicamente impegnata,
che ha scelto il taglio fantastico-surreale – né moralistico, dunque, né politico –
per dar voce alla sua visione profondamente etica della vita e dell’arte e per dare
un volto ai suoi fantasmi. Un diverso punto di vista, una diversa poetica dello
sguardo, un pò folle un po’ fanciullesca e utopica, con cui accostarsi alla realtà e
accantonarne rigide categorie e comodi pregiudizi. È superfluo qui ricordare
come la poetica dello sguardo – Todorov insegna – sia alla base del racconto
fantastico e “visionario” e presieda immancabilmente a quelle che Caillois definisce le sue «stranezze irriducibili»
13
. Da postazioni diverse si può spiare meglio
tra le maglie segrete dell’universo, dar credito alla propria immaginazione per
“illuminare il reale”: «Purtroppo non si tiene conto che il reale è a più strati, e
l’intero creato, quando si è giunti ad analizzare fin l’ultimo strato, non risulta
affatto reale, ma pura e profonda immaginazione»
14
e infine dare giusto ascolto
al diverso senza correre il rischio di essere semplicisticamente tacciati di “moralismo e politicizzazione” o additati come “guastatori visionari”
15
:
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12
ID., Del Sentimento, cit., p. 227.
13
Cfr. T. TODOROV, La letteratura fantastica, Milano, Garzanti, 1988.
14
A.M. ORTESE, L’Iguana, cit., p. 60.
15
ID., Corpo celeste, Milano, Adelphi, 1997, p. 30.I veri diversi sono i cercatori di identità, propria e collettiva […] Sono coloro che non
credono, o credono poco, ai partiti, le classi, i confini, le barriere, le fazioni, le armi, le guerre. Che nel denaro non hanno posto alcuna parte dell’anima e, quindi, sono incomprabili;
quelli che vedono il dolore, l’abuso. I cercatori di silenzio, di spazio, di notte…16
Il diverso nella poetica della Ortese è assunto come una vera e propria categoria: la categoria della separatezza, degli incompresi e la categoria degli offesi
o dei cosiddetti “esseri inferiori”, che nel mondo ormai votato all’omologazione
e alla contabilità come quello contemporaneo, si identificano con «le creature
oppresse, gli zingari, i poveri, i vecchi, i bambini, gli animali». «I più deboli che
hanno bisogno di tutto e sono in balia degli altri»
17
.
Il diverso nell’Iguana è rappresentato proprio dall’animaletto verdissimo e
senza età, alto quanto un bambino, dall’apparente aspetto di una lucertola gigante, ma vestito da donna, con una sottanina scura, un corpetto bianco, il fazzoletto in testa. Orrido, viscido, respingente animale, con fattezze bestiali e atteggiamenti e lagni e guizzi femminili e fanciulleschi, questo essere strano, che vive
in un sotterraneo ed ha funzioni di servetta, inserito con grande naturalezza
nella vita di tutti i giorni della famiglia Guzman, diventa oggetto d’amore per il
povero Daddo: in effetti è l’amore pietoso per l’altro sottomesso. «Di più sempre di più voglio essere me stesso, e senza cessare di essere me stesso voglio
essere anche gli altri, addentrarmi nella totalità delle cose visibili e invisibili,
estendermi nell’infinità dello spazio e prolungarmi nell’eternità del tempo»
18
.
Estrellita, la servetta che Ilario – alter ego ormai snaturato di Daddo – aveva
prima amata e usata per “i giochi mondani”, malamente ripagata e, infine, allontanata per la gelosia della nobildonna che doveva prendere in moglie, essere
inferiore nella scala sociale e, perciò, “oppresso” da riscattare, lo diventerà vieppiù se rappresentata come fisiologicamente diversa. In Estrellita, un tempo piccola stella, poi solamente “diabolica” iguana ammaliatrice
19
, ovvero natura tentatrice, si nasconde, come in tutte le cose, l’anima del mondo. Quella strana
creatura mutante con spoglie zoomorfe sotto cui vivono sentimenti umani,
diventa l’anello di congiunzione tra mondi e sfere: «L’uomo è un fine, non un
mezzo. L’intera civiltà è finalizzata all’uomo, ad ogni singolo uomo, ad ogni
io»
20
. La fanciullaggine innocente di Daddo, tutto sommato “poco intelligente”,
ma capace di vedere dietro i pregiudizi e aldilà delle leggi del mercato e della
convivenza sociale, riporta la natura a immaginarie origini, ove l’archetipo si
171
Depistages e sdoppiamenti nell’Iguana di Anna Maria Ortese
16
Ibid.
17
Ivi, p. 30, 31.
18
M. DE UNAMUNO, Del sentimento tragico, cit., p. 43.
19
Cfr. A.M. ORTESE, L’Iguana, cit., cap. XV.
20
M. DE UNAMUNO, Del Sentimento, cit., p. 20.identifica con l’ibrida figura della donna-animale (che richiama la sirena di lontana memoria) e dove non hanno diritto di essere servaggi e discriminazioni:
All’adulto e ai popoli molto colti, tutto il mondo è il mondo dell’ovvio..L’uomo applica i
cartellini coi prezzi e, occorrendo, le informazioni sulla merce, sull’uso, dovunque. […] Ma
per il fanciullo, e l’adolescente, e anche per un certo tipo di artista non è così … Egli capisce
ciò che l’adulto non capisce più: il mondo è un corpo celeste
21
.
Quella della Ortese è una visione romantica e pandeterministica del reale che
vuole ristabilire una sorta di etica primordiale egalitaria, una sorta di democrazia cosmica, che rivendica la dignità originariamente paritaria di tutto l’esistente. Una visione utopica, dunque: d’altra parte l’utopia è stata da sempre vissuta
dall’Ortese come “luce bianca” che illumina e guida l’intera esistenza. Ma qui
l’utopia si presenta sottoforma di sogno o di delirio: e allora succede che il
gusto del racconto e della sorpresa, la macchina narrativa volta a decostruire
fabula e romanzo tradizionali – fingendo di assumere il modello del romanzo di
avventura a tinte gialle – la architettura iperomanzesca diventano i veri protagonisti mentre le implicazioni etiche e pragmatiche passano in secondo piano, perlopiù destinate alle digressioni che la voce narrante si concede per bocca di
Daddo
22
. Per il resto, dunque la ambiguità del racconto surreale non è minimamente tradita e la logica onirica soprassiede a questo spaccato di mondo: indizi
sparsi ad arte, volutamente non raccordati da un lineare disegno di insieme,
confondono anziché illuminare la lettura. Il lettore è immerso allora per pagine
e pagine in un mondo insolito e straniato senza l’ausilio di un qualsivoglia filo
di Arianna; la frammentarietà del racconto esclude qualunque illusione di una
verità unica o di un univoco gioco di corrispondenze. Il lettore è messo in guardia dal cercarlo:
Dove fosse realmente il conte, in questo frattempo, se al pozzo a guardare con gli altri se
vi era traccia del Corpo di Dio, o in giro per l’isola, con la pistola nella povera mano: o in
quel freddo e allucinato tribunale, noi, Lettore, se pure ciò ti parrà strano, non possiamo dirti.
Ma tu, se di questi continui passaggi di scena, e spezzati dialoghi, e rapido inserirsi di un
luogo in un altro, se di questi intarsi di casa, di vento, di pozzo, di sentieri frementi e muti
interni… sarai portato a chiedere spiegazione, rifletti…Volgi lo sguardo alla tremenda verità
dell’anima, ch’è qui, ovunque, e in nessun luogo…”
23
Ma al momento della morte, “misteriosa” anch’essa, di Daddo, quando l’atmosfera onirica si esaspera nei connotati contorti e angosciosi dell’incubo – che
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Silvana Cirillo
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A.M. ORTESE, Corpo celeste, cit., p. 58.
22
ID., L’Iguana, cit., cap. XXIII.
23
Ivi, pp. 160-61.spesso acquista toni grotteschi – Ilario, cinicamente irrispettoso dell’iguana,
prende le sembianze di Mendez, conquistatore e persecutore di popoli, e il conte
si trova ad essere protagonista di un processo kafkiano, che richiama molto da
vicino una seduta psicanalitica, intentato nientemeno che per l’uccisione di Dio
(rappresentata, manco a dirlo, da una semplice farfalla). Quando Daddo esce
fuori di sé, o sprofonda ancor di più dentro di sé, e si guarda e mette a fuoco le
ragioni della malinconia che lo affliggeva in vita (o in veglia?): «Sentì che il suo
viaggiare era stato immobilità, e ora, cominciava il vero viaggiare: Sentì poi che
questi viaggi sono sogni, e le iguane ammonimenti: Che non ci sono iguane ma
solo travestimenti, ideati dall’uomo allo scopo di opprimere il suo simile e mantenuti da una terribile società», bene allora il lettore si rilassa, perché per un
momento la narratrice gli ha dato le chiavi per entrare e partecipare della sua
utopia. Ma l’illusione dura poco: il paradosso è che la persecuzione avviene per
la ragione inversa al senso di colpa che attanaglia il protagonista: sotto processo
l’imputato anonimo, ovvero Daddo, ci va per quella sorta di idealismo fanciullesco e anacronistico da novello Hidalgo (ancora Unamuno!) che non accetta il
mondo così com’è (la contadina Aldonza Lorenzo non divenne la meravigliosa
Dulcinea par cui valevano la pena le mille folli imprese di Alonso Chisciano?
L’iguana non si trasforma in una piccola leggiadra fanciulla da salvare a tutti i
costi?) con cui si è posto di fronte alla società: questo il suo delitto.
La pietas cristiana e la ragione criticamente laica coesistono, così come
pathos romantico e tocchi di ironia e di humour. Questo più volte assume toni
da pura farsa: quando si allude per esempio alle prestazioni domestiche e sessuali per cui l’iguana è pagata, protetta addirittura dal sindacato; quando si raccontano le tresche di don Fidenzio per prendersi l’isola, giocando sull’ignoranza
superstiziosa della gente e imbastendo la messinscena della benedizione della
casa “appestata” dalla diabolica iguana, seguita dalla scenata isterica della futura suocera di Ilario, signora Hopins, all’apparire dell’animale:
Manifestò chiari segni di una spettacolare crisi isterica, le cui avvisaglie furono:un repentino allungarsi di tutta la già lunga persona, un saltare all’indietro del fiorito cappello, e gli
occhi, che chiudendosi del tutto, non avevano fatto in tempo a impedire la fuoriuscita di un
mare di lacrime, mentre dalla bocca, dapprima serrata in un – mmmmmm – significativo,
usciva a un tratto un: “Basta, basta! Portatela via! Uccidetela!
24
In questa sorta di insolito romanzo-saggio, dunque, la scrittrice finisce per
sdrammatizzare con ilarità ed enfatica ridondanza linguistica le sue stesse ingenuità di scrittrice ormai ossessivamente presa dall’angoscia esistenziale e da
un’irreversibile sfiducia nell’uomo e, insieme consapevole che la sua utopia –
173
Depistages e sdoppiamenti nell’Iguana di Anna Maria Ortese
24
Ivi, p. 103.scontratasi con la realtà normale, a partire da quella lombarda – ne esce sconfitta.
Anche sull’isola sperduta fanciullaggine e solidarietà non trovano più un
habitat per esprimersi ed espandersi.
Daddo, l’aristocratico, è pur sempre un folle, malato, sognatore, un vero isolato, non attendibile e anche Iguana, la servetta amata prima come donna poi
trattata da animale e abbandonata, alla fin fine non ha disdegnato il denaro, “la
mesata” e si è perfino rivolta paradossalmente – a quanto pare – ai sindacati! E
se è ancora credibile il mito della uguaglianza di tutte le creature e la fede in un
archetipico spirito del mondo, non lo sono più se impersonati da un aristocratico
lombardo, che magari solo per rompere la monotonia noiosa del quotidiano
25
si
sogna di essere diverso e proietta su una fantasmatica serva – iguana il suo desiderio astratto di purezza: «Il conte… ritrovava in quegli occhietti splendenti e
fissi (l’oxymoron non è certo casuale) una soavità che a Milano mai aveva visto
negli occhi di alcuno, e gliene veniva un sentimento pacato e grave del segreto
dell’Universo, di tutti gli abissi che circondano, e, probabilmente, della loro
bontà»
26
. La Ortese insinua il dubbio: Daddo è davvero così buono come sembra o lo è per opportunismo o è la scrittrice che lo vorrebbe così, come in sogno,
o è Daddo che vorrebbe essere tale ma ormai che la vita lo ha portato altrove,
(morto vivente lo definirebbe Unamuno) non gli resta che vedersi sdoppiato
nell’Ilario giovane e puro e affidare a lui, fuori dal tempo reale e dalla storia, la
parte buona di se stesso inadatta a esistere “nel secolo attuale”? Comunque sia
si sente fortemente implicita l’impressione di una satira sociale.
Così il Lettore assiste ad una continua altalena tra complicità ideale e parodizzazione sottile da parte della voce narrante di tanta generosità e bontà
27
, che hanno
bisogno di un’isola felice e di uno stato psicologico alterato per esercitarsi e che
nella vita normale non sanno esprimersi e non hanno giustificazione. Fanciullaggine
e follia visti come malattia tra i benpensanti, figurarsi come sono accolti tra il perbenismo, il produttivismo dei lombardi. «Se sapessi con quanta asinina gravità ridono
dei vaneggiamenti di quella che credono pazzia e come si divertono con quella che
credono mancanza di senno!»
28
osservava Unamuno a proposito del suo Don
Chisciotte, e aggiungeva: «Come santa, come dolce, come redentrice la pazzia»
29
.
174
Silvana Cirillo
25
«Portare a Milano qualche manoscritto inedito, romanzi o cantos riguardanti il Portogallo. Si astenne, però, dal suggerire l’argomento suggerito dalla moda – miseria, oppressione
e possibilmente qualche amore piccante». Ivi, p. 37.
26
Ivi, p. 78.
27
«Così non meravigliarti, Lettore, se la malattia che da tempo minacciava il nostro conte, morto vivente nella sua classe, è esplosa nei modi tremendi che vedi, rivelando la sotterranea malinconia, la straziata esigenza di reale». Ivi, p. 161.
28
M. DE UNAMUNO, Commento alla vita di Don Chisciotte, cit., p. 282.
29
Ivi, p. 173.A Ocaña, ma solo a Ocaña è tutto possibile! A Ocaña può succedere che aristocratici ricchi, per tradizione indifferenti e classisti, si trasformino in benefattori della natura e dell’umanità. Ma tutto avviene per gioco o per sogno o per
fantasticheria: insomma per letteratura. Si torna da dove si era partiti.
Siamo dunque all’ultimo capitolo. Il capitolo a cipolla che si apre rivolgendosi al consueto lettore e, come nella scena primaria, tornando a Milano: lo stile
diviene nuovamente agile, veloce, asciutto, come nel primo capitolo. Banditi
arcaismi e romanticismi, la voce narrante rifotografa con un evidente piglio ironico il grigiore in cui giacciono i personaggi incontrati all’inizio: Adelchi, l’amico imprenditore che ha innescato il meccanismo del racconto con la richiesta di
un’idea editoriale stravolgente; la madre, la nobildonna attenta esclusivamente al
proprio patrimonio, che rinnega il figlio lontano né si preoccupa di recuperarne il
corpo, ma pensa solo al suo smeraldo di famiglia ritrovato in un angolo della
cucina Guzman (perché Daddo lo aveva regalato a Iguana, ottenendone un rifiuto). Umanità indifferente che nell’indifferenza muore, come succede alla anziana
signora. Ma quanto tempo è passato? Si citano i mesi e i giorni, ma non gli anni.
La scrittrice inventa un nuovo espediente letterario per fare luce sui fatti, o
meglio, per confonderli ulteriormente: introduce un secondo testimone, la villeggiante sig.ra Rubens, che si rivolge ad un secondo lettore, il marito e gli invia, a
sua volta diverse lettere, con versioni diverse delle vicende e delle voci circolanti
sull’isola.
Nella prima parla di una ragazzetta senza età, dolce ma trasognata e distante,
“strana” e inquietante, matta, secondo il paradigma comune, innamorata di un
conte ormai da anni sposo felice (Ilario?) Nella seconda definisce meglio le circostanze: fa riferimento alla morte di un certo conte avvenuta tre anni prima in
“modo oscuro” (ecco che ancora una volta le figure del marchese Ilario e del conte
Daddo si sovrappongono) e ad una cappella stranamente vuota che lo commemora
e illaziona che alla giovane, inspiegabilmente felice, e alla strana gente dell’isola in
realtà interessa solo il danaro: la mentalità borghese e benpensante rappresentata
dalla Signora Rubens, non concepisce sentimenti che non badino in qualche modo
a un tornaconto personale e applica questo metro a tutto quanto la circonda.
Elementi diversi e perturbanti non sono ammessi, anzi rimossi ed etichettati come
strani e incomprensibili. Che dire allora che tutte le mance elargite non sono state
neanche toccate da quella stramba gente isolana?
Intanto, la voce narrante ci informa su come trascorre il tempo quella gente:
imparando a leggere e a scrivere. I versi, molto naif naturalmente, che i due fratelli Guzman e la povera Iguana innalzano al cielo, ovvero al conte Daddo perché dal cielo li protegga assieme alla natura tutta, chiamano in causa anche
Cristo («Conte di Cristo, non resistere.Vieni al pozzo, l’acqua non c’è.»)
30
, il
175
Depistages e sdoppiamenti nell’Iguana di Anna Maria Ortese
30
A.M. ORTESE, L’Iguana, cit., p. 183.Cristo uomo che anche le avanguardie novecentesche più spregiudicate rispettarono e salvaguardarono come simbolo di vera solidarietà e uguaglianza. Come
non pensare ancora una volta a Miguel de Unamuno e al suo Cristo: un Cristo
«più uomo di tutti gli uomini» e insieme «il più divino di tutti i folli», pari solo
al Don Chisciotte? Anche Daddo fu apostrofato come pazzo.
Intanto Iguana ascolta quei versi felice e ride: la cerniera tra animalesco e
umano è suggellata dal riso: riso spontaneo, liberatorio, senza paure, «strambo
modo», osserva la voce narrante di esprimere «l’inumano» patire del suo cuore.
La risata è la prima manifestazione primitiva e corporea e comunicativa della
propria felicità:
«Il riso! Il riso! L’abissale passione tragica di Nostro Signore Don Chisciotte! E quella di Cristo. Far ridere con un’agonia: – se sei il re dei Giudei salva te
stesso»
31
.
La vita è un sogno. Forse sarà un sogno, Dio mio, anche questo Tuo universo del quale
sei la coscienza eterna e infinita?sarà un sogno tuo? E forse Tu ci sogni? Siamo solo un sogno
Tuo noi sognatori della vita? E se così è, che cosa accadrà dell’Universo, che cosa accadrà di
noi, che cosa accadrà di me, quando Tu, Dio della mia vita, Ti sveglierai? (Miguel de Unamuno, da Sentimento tragico della vita)

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