giovedì 22 novembre 2012

Medea


MEDEA DAL TABÙ AD UN'ALTERNATIVA POSSIBILE
"Una donna condannata per l'omicidio di quattro bambini. Un pittore, un ritratto. Pochi ingredienti sufficienti per scatenare una polemica che ha diviso l'Inghilterra......Il dipinto ritrae il volto tormentato di una donna i cui lineamenti sono fissati e formati da centinaia di calchi di gesso di una mano infantile...Il quadro non ha titolo....forse...quel quadro non é altro che la metafora della maternità. Forse è l'eterna tragedia di Medea....."
Così Maria Rosa Cutrufelli quest'estate su di un quotidiano riferiva di una contesa che aveva visto una donna, l'infanticida, contrapporsi alla Royal Academy of Arts che quel quadro, ispirato al pittore dall'atto della donna, voleva esporre.
Perché rievocare l'episodio in questo contesto? Quale il legame, il nesso tra quanto accaduto allora e le questioni che qui, oggi, si dibattono?
Il nesso, credo, sta in quella "metafora della maternità", "l'eterna tragedia"... metafora, eterna tragedia che é ormai tempo di svelare, riconducendo dal mito all'esperienza della vita l'agire/il vivere la relazione madre/figlio-figlia ed il suo reciproco figlio-figlia/madre dentro la concretezza del quotidiano.
Quotidianità ed esperienza che non abbisogna della retorica del sacro ma semplicemente della laicità di uno sguardo in grado di riconoscere nel binomio madre-figlio/a non un'entità unica, segnata da un destino comune, ma due soggettività, sicuramente unite da quella che Galimberti definisce "relazione originaria", eppure tra loro differenti e come tali portatrici di bisogni, necessità, diritti non sempre coincidenti ma, anzi, talvolta tra loro in conflitto.
Conflitto la cui soluzione è da ricercare non nella gerarchizzazione di bisogni o desideri, né tantomeno nella loro negazione quanto piuttosto nella costruzione di una rete socioculturale che, mentre salvaguarda gli interessi dei singoli, metta in condizione la madre ed il bambino/la bambina di vivere il loro rapporto in modo costruttivo e soddisfacente dal momento che dentro un nuovo dire, non più metafora o tragedia, la relazione stessa riconquista senso e significati altri non più dipendenti dal sacrificio di nessuno.
In quest'ottica é allora possibile comprendere quelle esperienze di vita finora relegate nel campo della follia femminile, gesti ed azioni incomprensibili solo per una ragione "pura" che non ha mai sopportato il confronto con la concretezza del quotidiano ma che, invece, racchiudono nel loro accadere ragioni ed emozioni alle donne evidenti.
Ci si riferisce, é chiaro, a quegli episodi in cui la rottura del binomio avviene in modo violento ad opera di una delle due componenti (il figlicidio ed il matricidio), episodi che, é esperienza comune, la cultura dominante, sia essa giuridica o psichiatrica, tende, almeno "a caldo", ad ascrivere ad un'irrazionalità oscura ed incomprensibile da cui non farsi contaminare perché profondamente interferisce con i principi fondanti di una società patriarcale che nega senso e significato al mondo dei sentimenti e delle passioni che nel corpo si sostanzia e manifesta .
Rimandare quei gesti, infatti, alla "incapacità di intendere e di volere", esime dall'interrogarsi intorno a categorie e valori da sempre dati come assoluti, apriori "naturali" che definiscono i confini di una norma rigida che riduce la corporeità, di cui le donne sono rappresentazione e logos, ad oggetto di dominio e controllo.
Ed è per questo che per le donne, come dice Franca Ongaro Basaglia "l'ideale di salute mentale corrisponde all'accettazione di caratteri definiti da altri come precipuamente femminili, specifici della sua natura....la non adesione ai ruoli naturali é fonte di pesanti sensazioni morali e sociali... e, nonostante i cambiamenti di questi ultimi decenni, ancora le donne vivono come "colpa" sia il desiderio di realizzarsi come persone in sé e non solo in funzione di altri sia quel sentimento di incapacità/inadeguatezza a svolgere ruoli e funzioni"... che altri (in particolare psicologi e psichiatri) definiscono come "naturali" ma che invece costano tanta fatica e solitudine.
Colpa e sentimento di inadeguatezza che spesso sono origine di una sofferenza talmente forte da risultare incomprensibile soltanto perché la pratica terapeutica della psichiatria per le donne altro non è se non processo di normalizzazione/omologazione a valori e comportamenti da altri definiti e perciò stesso "incapacità totale di comprendere"
Noi, invece, come operatrici della salute mentale, proprio su questa "incapacità di comprendere" della scienza psichiatrica abbiamo voluto interrogarci, assumendola come segnale di un deficit che, come genere, dovevamo colmare riconoscendo nella donna con sofferenza psichica quelle parti di noi che, per legittimarci, avevamo dovuto negare.
E per far questo circa sette anni fa un gruppo di donne portatrici di sofferenza ed operatrici dei Servizi Salute Mentale iniziarono un percorso che ha portato alla costituzione di Centro Donna - Salute Mentale come luogo che risponde al bisogno di cura di un territorio e che offre iniziative di salute a tutte le donne della città'. Servizio psichiatrico forte e come tale portatore di regole istituzionali ma contemporaneamente pratica allusiva ad un'alterita' possibile fuori della logica dell'occultamento e/o dell'antagonismo.
Pratica fondata su quel bagaglio "congenito" (perché storicamente determinatosi) di ogni donna che è costituito, appunto, da un patrimonio di conoscenza e di sapere, riferito al soffrire ed al curare che si tramanda da donna a donna, in questa predisposizione è dato cogliere un'attenzione, una capacità di ascolto, mirata a ricomporre "la cura come preoccuparsi di, come tensione verso l'altro/altra, come incontro e rischio di due soggetti" (F. Rotelli, 1980).
Mutano segno, in questo quadro, anche le forme codificate di prestazione terapeutica, che, pur nella differenza dei ruoli, assumono un significato terapeutico soltanto nel quadro complessivo delle interazioni: sono sì di carattere individuale ma mai separate e autonomizzate nel gesto, nel linguaggio, e negli effetti.
Questo quadro complessivo di interazione delinea un rapporto terapeutico che si articola su più piani dal medicale al quotidiano, consentendo così uno scambio ed una contaminazione reciproca che determina comprensione e complicità: complicità come disponibilità della curante a comprendere l'altra da sé, a confrontare e verificare il proprio sapere, la propria scienza con l'esperienza esistenziale, la cultura, il vissuto della persona in cura; complicità come costruzione di una relazione forte di reciprocità e fiducia che deve mettere la persona in cura in condizione di sopportare lo scarto fra realtà e desiderio, l'inevitabile frustrazione che il confronto quotidiano produce su persone portatrici di sofferenza psichica.
Nulla a che vedere, quindi, con la connivenza e/o con il pregiudizio, con la difesa acritica del "proprio paziente" da parte del/della terapeuta secondo una logica di oggettivazione del medesimo come se non fosse persona portatrice di diritti ma anche di doveri.
Questa logica di responsabilizzazione riferita non solo alla persona in cura ma anche alla terapeuta, intesa sia come operatrice singola che come équipe del servizio nel suo complesso, trova una significativa concretizzazione all'interno del delicato ambito di confronto tra psichiatria e giustizia.
In particolare, nella presa in carico da parte di Centro Donna di donne che, per motivi, in parte o in toto, ascrivibili alla loro sofferenza psichica, sono costrette a misurarsi con la giustizia.
Con queste donne, infatti, il lavoro ha il duplice scopo di elaborazione del gesto "criminale" come tentativo di rottura di un'esperienza di sofferenza insostenibile a livello individuale e di lettura dello stesso sul terreno di una "normalità" da trasformare, certamente, ma non da negare.
Ed é per questo che si cerca in tutti i modi (anche se non sempre si riesce) di non sottrarre la donna al procedimento penale, ma in questo la si sostiene opponendo agli apparati giudiziari la concretezza dell'esperienza individuale, il suo percorso di vita nel quale è possibile ricongiungere nessi e significati di errori e gesti che niente e nessuno può negare perché "insensati".
Si rompe, in questo modo, il legame perverso tra psichiatria e giustizia che ha fondato i manicomi criminali, si ridisegnano i due piani di intervento, il terapeutico ed il sanzionatorio, restituendo così alla donna la sua esperienza concreta di vita ed alla comunità la possibilità di comprendere il significato ed il senso di gesti che, non più tabù, segnalano la necessità di rivisitare il concetto dominante di una "normalità" sostanzialmente estranea al mondo degli affetti e dei sentimenti.
In questo quadro si inscrivono le esperienze di "arresti domiciliari" presso Centro Donna-Salute Mentale, che in questi ultimi due anni hanno coinvolto due donne, esperienze ancora in fieri e, quindi, trasmissibili soltanto attraverso l'esplicitazione di alcuni passaggi fondamentali del percorso agito dal servizio, della rete costruita nodo dopo nodo dalle operatrici al fine di esplicitare e rendere, così, più comprensibile quanto finora detto.
Entrambi gli episodi, pur profondamente diversi per storia, svolgimento ed esperienze esistenziali delle persone coinvolte, hanno avuto come oggetto la relazione madre/figlio-a, nel senso che hanno portato in superficie una condizione di grave sofferenza della relazione in sé al di là delle differenze soggettive, che pur sono sostanziali e per certi versi addirittura contrapposte.
Sofferenza la cui origine è stato possibile ampiamente leggere e comprendere all'interno di quella colpa/incapacità/inadeguatezza di cui già si é detto senza dover ricorrere a categorie patologiche e nosografiche.
La vita di entrambe le donne è sin dall'inizio segnata da una pesante miseria non solo economica ma anche culturale ed affettiva, caratterizzata da modelli di rapporto violenti e di negazione dei soggetti più deboli.
Costruire una famiglia dove per tutti sia possibile vivere bene, nella quale i figli possano crescere godendo di comodità e protezione è un obiettivo che entrambe si danno quasi come imperativo categorico e morale per riscattare un'esistenza altrimenti vuota di senso e positività.
Certamente diversa è la consapevolezza, diverso l'agire, le modalità poste in atto per raggiungere questo obiettivo, ma il tema del "matrimonio, dell'essere una buona madre o viceversa una buona figlia" è tema continuamente ricorrente e rappresenta il nodo centrale intorno al quale come operatrici abbiamo costruito la rete di sostegno in modo da rendere possibile un'elaborazione di esso in termini di riconoscimento e rafforzamento soggettivo.
Concretamente questo ha significato sia lo stabilire un rapporto diretto e tempestivo sul versante giudiziario che la costruzione di una rete di relazioni terapeutiche forti.
In termini pratici ciò si è tradotto in una presa in carico delle questioni attinenti l'iter giudiziario nella direzione di un rapporto con il magistrato che sin dalle prime fasi, all'interno di una differenza di ruoli, ha visto lo svolgersi di un percorso che oltre ad evitare l'invio in O.P.G. ha permesso alla donna in questione di usufruire delle cure necessarie senza che il suo stato di sofferenza invalidasse il suo dire o le negasse il diritto a difendersi.
Dopo un primo accoglimento presso il S.P.D.C. durante il quale, comunque, le operatrici di Centro Donna hanno mantenuto un rapporto quotidiano, gli arresti domiciliari, in virtù di un lavoro congiunto tra difesa, servizio di salute mentale e magistrati (gip e p.m.), sono stati effettuati presso il centro di salute mentale permettendo così un programma terapeutico articolato su più piani e del cui svolgersi si è sempre data puntuale informazione alla magistratura. Informazione che é importante non solo perché prevista dalla legge, ma soprattutto perché garantisce alla donna il legame con la realtà ed alla giustizia l'acquisizione di significativi elementi di conoscenza.
Riteniamo importante segnalare il dato che anche se le operatrici direttamente implicate, per ogni situazione, sono 4/5 le discussioni intorno alle modalità ed al senso dell'agire hanno sempre coinvolto l'équipe nel suo complesso allargandosi, in momenti particolari, a tutte le donne che frequentano il servizio.
Confronto e discussione necessaria per sciogliere le angosce ed i fantasmi che simili episodi evocano in ciascuna (ogni donna è/stata figlia è/può essere madre), utile per ricondurre sul terreno della normalità le relazioni fuori dalla compassione e/o dal timore, per riconoscere all'altra una sua soggettività complessa e contraddittoria.
La fine degli arresti domiciliari rompe le analogie perché diverso è il passaggio successivo che questi determinano.
In una situazione, infatti, conclusasi la fase di trattamento, anche all'interno di differenti interpretazioni sul ruolo e le funzioni di un Centro di Salute Mentale, differenti interpretazioni che, proprio in virtù del rapporto costruito tra le operatrici del centro e gli operatori della giustizia, hanno trovato un corretto livello di mediazione gli arresti si sono conclusi con il trasferimento presso la casa circondariale di Udine.
Qui la donna riceve, con frequenza bisettimanale, la visita di due operatrici del servizio il che le consente di usufruire del sostegno necessario al mantenimento del suo equilibrio psichico nelle condizioni date e di elaborare in termini non fittizi, come di necessità accade in una struttura sanitaria, quanto é accaduto.
Per l'altra, invece, gli arresti domiciliari sono stati revocati perché l'iter giudiziario si é concluso in fase istruttoria mentre il rapporto con il servizio continua perché, evidentemente, le questioni apertesi nella sua vita sono tutte ancora da risolvere.
In particolare ci pare significativo sottolineare come la soluzione del procedimento nei termini di un proscioglimento per "totale vizio di mente" se da un lato é stata da lei accolta con gioia perché di fatto da un giorno all'altro era libera, ha nello stesso tempo lasciato una sorta di "buco nero" nella sua vita. Il modo stesso in cui lo ha appreso, di fatto informale (due poliziotti le hanno una sera consegnato una carta che ciò le comunicava), quasi alla chetichella soprattutto se paragonato al clamore iniziale, questo viceversa eccessivo, segnala come quelle tre parole "vizio di mente totale" siano sufficienti, nel bene e nel male, a svuotare di senso e significato qualunque gesto anche il più estremo.
Svuotamento che mette tutto a tacere: le sue responsabilità, le sue ragioni, i suoi errori, riguardano solo lei, tutt'al più la sua terapia, non la comunità che, pure, al momento del fatto è stata coinvolta , si é in qualche modo schierata a favore o contro in modo del tutto emotivo.
Ed allora quelle tre parole ci riguardano tutti, lasciano il giudizio in sospeso, rafforzano il tabù, impediscono a ciascuno/ciascuna di verificare il proprio pensiero, di elaborare le proprie reazioni, tolgono concretezza al gesto che in assenza di una sua rappresentazione pubblica (cosa altro è il processo se non la drammatizzazione della contrapposizione tra norma e trasgressione?) ricade sulla donna come un'incubo, la follia di un momento che è meglio cancellare, come si può e si sa costi quel che costi.

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